Dodici anni, capello scuro, un viso furbetto e un sorriso sornione: Vova è spigliato e porta la sua infanzia con grande grinta.
Si siede accanto alla mia sedia e si prende il pc tra le mani, scrivendo il suo nome velocemente sulla tastiera.
Racconta che studiava in una scuola che adesso è stata completamente rasa al suolo e che la sua materia preferita è senza ombra di dubbio l’algebra.
Non rimango troppo stupita quando, alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?”, Vova risponde sicuro: ≤l’ingegnere! ≥
Sorrido e gli racconto che conosco davvero un sacco di ingegneri, ma lui mi ferma e continua dicendomi che lui, l’ingegnere, lo vuole fare in Ucraina.
Vorrebbe tornare alla sua vita di prima, ai libri, alla scuola, racconta che il pomeriggio giocava a calcio e che la sua squadra preferita è il Liverpool.
Quando gli chiedo con chi giocasse, Vova si incupisce, ora i suoi amici sono sparsi per tutta Europa e non è facile perdersi così, non è giusto.
Parliamo di suo padre e il ragazzino non riesce a trattenere le lacrime, pur cercando di nasconderlo in tutti i modi.
Suo padre è dovuto restare in Ucraina e Vova ha paura per lui, sa che si trova in luoghi molto pericolosi; si sentono ogni sera e ogni mattina, ma non è comunque sufficiente a placare l’ansia e l’angoscia.
Vova racconta che durante un trasferimento in un paese più sicuro, sopra le loro teste è volata una bomba a ultrasuoni e lui non riesce più a togliersi dalla mente quel rumore infernale, che gli ha gelato il sangue.
Al solo pensiero rabbrividisce: è stato quello il momento in cui ha provato più paura.
Lo guardo e vorrei abbracciarlo come fosse mio figlio. Vova ha dodici anni e mi sta spiegando cos’è e come funziona una bomba a ultrasuoni.
È questo che la guerra fa: cancella l’infanzia e la spensieratezza.
Interviste di Emanuela Guerra
Foto di Roberto Pisconti